Tutti quelli che abitano nei dintorni della provincia di Bari ma anche la maggior parte dei pugliesi hanno trascorso delle giornate o almeno conoscono la Foresta di Mercadante, una bellissima zona che si estende per 1300 ettari nel territorio tra Cassano delle Murge e Altamura, frequentatissima dagli abitanti delle zone costiere e ormai chiamata “il polmone di Bari”. Anche se molti l’hanno sentita nominare, forse non tutti sanno che in realtà la Foresta di Mercadante è una foresta completamente artificiale: fino agli inizi del ‘900 tutta quella zona era spoglia e davvero povera di vegetazione. Perché costruire allora una foresta? Per capire il preciso intento dietro questa scelta, bisogna fare qualche passo indietro.
In particolare, bisogna arrivare a milioni di anni fa, tempo in cui tutta la zona di Bari era ricca di corsi d’acqua, piccoli torrenti o anche veri e propri fiumi, che scendevano dalle Murge fino a sfociare dolcemente lungo tutta la costa. Quei fiumi nel corso tempo però si sono prosciugati, ma la loro traccia è ancora ben visibile oggi grazie alla presenza dei loro letti, formati da solchi di diversa larghezza e profondità nel terreno, che oggi chiamiamo comunemente lame. È stato appurato che nel territorio di Bari esistano 9 lame, dalle più piccole, come Lama Villa Lamberti che si trova nei pressi dello stadio San Nicola, fino alla più grande, la Lama Picone, che nei libri di storia è annoverata come “il vero fiume di Bari” e che nell’epoca precedente all’Impero Romano si diceva fosse addirittura navigabile in alcuni tratti. Questo fiume nasceva da Cassano e si estendeva per 35 km fino a sfociare nell’insenatura di San Cataldo, ma oggi sia a causa dei tempi geologici che della speculazione edilizia, questa lama è stata completamente sepolta.
Ma madre natura non crea le cose per caso, ed ecco perché anche se le lame sono testimonianze di corsi d’acqua formatisi in tempi geologici remoti e siano tutt’oggi prosciugate, come è intuitivo pensare questi solchi nel terreno sono comunque la via preferenziale di deflusso delle acque meteoriche che cadono sulla Murgia: funzionano come veri e propri collettori naturali che portano l’acqua dall’interno fino alla costa seguendo la gravità. Quando quindi cade al suolo un’ingente quantità di pioggia, le lame si riempiono e hanno gli stessi effetti disastrosi di un fiume in piena.
Fin quando le lame però sono lasciate libere, non arrecano molti danni, poiché le acque sono libere di defluire verso il mare; ma quando intorno, dentro e al di sopra delle lame l’uomo interviene, allora la situazione può diventare tragica, come testimoniano i disastrosi eventi di alluvione di inizio ‘900 della città di Bari. Tutte le lame e specialmente Lama Picone sono state urbanizzate agli inizi del XX secolo: vi sorgono sopra interi quartieri, e spesso vengono usate come campi di coltivazione e anche come discariche. In caso di piogge abbondanti quindi, l’ostruzione della lama non permette il libero deflusso delle acque piovane, le quali non hanno più la possibilità di infiltrarsi nel terreno permeabile, e allora ruscellano in superficie invasandosi nelle zone a minore quota.
Tra il 1905 e il 1915 ci furono due importanti alluvioni a Bari, che costarono la vita a più di 20 persone. Ma fu l’alluvione del 1926 a far aprire gli occhi sulla situazione critica del territorio dal punto di vista idrico: il 6 novembre di quell’anno persero la vita 19 persone, ci furono 50 feriti e tutto il capoluogo pugliese fu sommerso da una massa fangosa di 60 cm. Tutte le opere di sbarramento delle piene furono completamente distrutte, anche complice la guerra di quegli anni, e la situazione sociale era in fervore. Per questo negli anni successivi il governo, dopo attenti studi tecnici da parte di esperti, approntò il piano di esproprio del regio decreto 30-12-1926 n. 3287: “Provvedimenti da adottare per il bacino del torrente Picone, in dipendenza dell’alluvione nell’abitato e nella provincia di Bari, confinante a Nord con la provinciale Cassano-Altamura, ad Est con la località “Femmina Morta” ad Ovest con quelle di “Chiummo” (cioè piccolo) e “Monsignore“: nasce cioè la foresta di Mercadante.
La foresta nasce quindi come un’opera di forestazione per la difesa idrogeologica del territorio, una delle più grandi e importanti d’Italia, con il compito di garantire una resistenza alla discesa delle acque piovane della Murgia che, incontrando gli alberi, rallentano, si disperdono e si infiltrano nel sottosuolo. La varietà di alberi piantati è immensa: dai pini ai cipressi, dalle querce agli olmi, circondati da una ricca fauna e da un’aria suggestiva.
Può però bastare un’opera così importante per la salvaguardia del territorio barese? La risposta non è affermativa. Per evitare che le lame “entrino in funzione”, sono stati costruiti nei loro pressi dei canali deviatori che hanno il compito di sopportare grandi portate di acqua e allontanarle dai punti critici del territorio, ma questi canali sono di vecchia progettazione, e in futuro potrebbero non bastare più. Inoltre la sempre più estesa cementificazione del suolo favorisce il ruscellamento delle acque, e il cambiamento del clima, e quindi delle precipitazioni, ci fanno assistere a fenomeni piovosi più brevi ma molto più intensi del passato, situazione di gran lunga più gravosa. Tutti questi fattori portano a dire che la situazione non è pessima ma neanche ottimale, anzi il tutto fa propendere ad additare Bari e gran parte del territorio costiero della provincia come territorio a rischio idrogeologico.
Un piccolo excursus storico che serve a farci capire che possiamo parlare fino a un certo punto di fatalità, casualità e imprevedibilità delle catastrofi naturali: la storia delle grandi alluvioni italiane lascia intendere che dobbiamo parlare quasi solamente solamente della cupidigia dell’uomo.