Sono ormai settimane che si discute sulla validità del progetto che prevede l’ampliamento dell’area museale del Palazzo dei Diamanti a Ferrara. Nell’occhio del ciclone è finito lo studio di architettura Labics, il cui lavoro è stato criticato aspramente dal noto critico d’arte Vittorio Sgarbi, tanto da far nascere una petizione per l’annullamento del concorso e il conseguente stop della realizzazione imposto dal Mi.B.A.C..
La petizione è stata firmata, tra i tanti, anche da nomi illustri come Portoghesi e Botta, supportando il pensiero del critico d’arte ferrarese che, oltre a ritenere che il progetto sia irrispettoso verso il bene storico, sia un grande spreco di danaro. Hanno invece sostenuto il progetto molte riviste di architettura e progettisti. Tralasciando discussioni di carattere politico, è interessante analizzare il Palazzo dei Diamanti ed il progetto di restauro proposto dallo studio Labics.
La fondazione dell’opera architettonica ferrarese risale al 1493 ad opera di Biagio Rossetti, architetto rinascimentale, inserita nel più ampio progetto chiamato “Addizione Erculea”, dal nome del duca Ercole I d’Este. Fu “uno dei tentativi più ampi”, durante il Rinascimento, atti a “sviluppare una nuova città sistematicamente pianificata […]. L’ampliamento occupava una superficie doppia di quella della città medievale, con due assi intersecantisi, su uno dei quali si attesta la piazza Nuova; circondato da quattro mura comprendeva quattro chiese e otto palazzi, tra i quali il palazzo dei Diamanti” (David Watkin – Storia dell’architettura occidentale).
Il bugnato a punta di diamante in facciata caratterizza fortemente l’opera, da cui proviene anche il nome. Le piramidi sono disposte a linee sfalsate con i vertici orientati diversamente per aumentare il chiaroscuro e rompere la monotonia che altrimenti si sarebbe creata. Particolare è la soluzione d’angolo in cui Biagio Rossetti pone un balconcino il cui accesso è dato da una piccola porta, rispetto all’ordine gigante della finestratura, che risulta nascosta agli occhi dell’osservatore posto a livello stradale. Il complesso è composto da una pianta a ferro di cavallo e una corte con giardino all’italiana rinascimentale simmetrico. Un portico con archi a sesto acuto, che riprende gli acquedotti romani, tranne che per il portale con lesene in dorico, da l’accesso al giardino posteriore, più rustico che geometrico, che purtroppo oggi è abbandonato. La struttura è in muratura portante e in facciata sono evidenti gli speroni alla base per evitare il ribaltamento del muro perimetrale strutturale.
Oggi è di proprietà del comune di Ferrara ed ospita una mostra stabile di arte moderna. Tra le opere esposte si annoverano capolavori di Picasso, Turner, de Chirico, Matisse, Degas e Mirò. La pinacoteca invece, oltre alla propria collezione di dipinti, ospita periodicamente anche mostre itineranti. Il palazzo è sicuramente una pietra miliare dell’architettura rinascimentale, un bene dalla bellezza assoluta da conservare e tutelare, tanto da essere stato fonte di ispirazione di moltissimi palazzi italiani e stranieri, come il noto Cremlino di Mosca. Negli ultimi anni il Palazzo dei Diamanti era stato sottoposto ad importanti lavori di miglioramento strutturale a causa dei danni provocati dal sisma del 2012.
Considerando l’incuria del giardino retrostante, la necessità di restaurare il prospetto sud e l’esigenza di ampliare gli spazi espositivi, il comune di Ferrara ha bandito un concorso vinto dallo studio romano Labics, specializzato anche in restauro architettonico.
Il progetto proposto è un nuovo padiglione espositivo a pianta rettangolare con un piccolo braccio di collegamento al palazzo. Una struttura nuda e bianca, che ha lo scopo di ripetere il ritmo del portico posto dinanzi, con il quale crea un’altra piccola corte, oltre a quella antica, totalmente trasparente. L’obbiettivo dei Labics è tutelare l’importanza del muro di cinta sud del giardino riducendo al minimo lo spazio occupato e, con la semplicità e la trasparenza del nuovo volume, conservando l’asse prospettico che parte dalla corte.
La struttura, presumibilmente in acciaio, rivestita così da restituire un colore chiaro simile a quello del bugnato in facciata, non è temporanea ponendosi su fondazioni che rendono la rimozione difficoltosa e costosa. Tuttavia l’intervento risponde a regole consolidate nell’ambito del restauro: bisogna ricordare cosa venne trascritto a seguito dell’importate congresso degli ingegneri e architetti italiani del 1883 a cui partecipò l’illustre Camillo Boito. Furono trascritte 7 massime tra le quali, per il caso di specie, è utile sottolineare la seconda: “Nel caso che le dette aggiunte o rinnovazioni tornino assolutamente indispensabili per la solidità dell’edificio o per altre cause gravissime ed invincibili, e nel caso che riguardino parti non mai esistite o non più esistenti o delle quali manchi la conoscenza sicura della forma primitiva, le aggiunte o rinnovazioni si devono compiere nella maniera nostra contemporanea, avvertendo che, possibilmente, nell’apparenza prospettica le nuove opere non urtino troppo con l’aspetto del vecchio edificio”.
Stesso concetto fu ribadito da Giovannoni, padre del restauro italiano, ne “Restauri di monumenti”. L’architetto/ingegnere romano divide i restauri in cinque categorie, ultima delle quali è quella dei restauri di innovazione, ”in cui non più si aggiungono elementi secondari o parti che più o meno possono essere modellate dall’antico senza che l’insieme dell’edificio ne soffra, ma zone essenziali ed organiche completamente si rinnovano: sia che si intenda ricostruire opere crollate di cui restino ruderi o che per ragioni di utilità si desideri ampliare qualche edificio esistente; ovvero che si voglia come per l’elevazione di nuove facciate ad antiche chiese, aggiungere una parte architettonica ed artistica, spesso la più nobile dell’edificio, che mai ha esistito. Studiosi egregi di Storia dell’Arte dicono ai restauratori: Non aggiungete e non togliete nulla ai monumenti! Respingere in ogni caso il concetto dell’aggiunta non è possibile […]. Né d’altra parte so convincermi della possibilità di un restauro in stile nuovo per una parte essenziale di un vecchio edificio, ad es. la facciata di S. Lorenzo in Firenze ideata in uno stile di un architetto moderno”.
Sembra quasi che con queste parole Giovannoni stesse intervenendo nella vicenda lasciando però la questione aperta. Molti sono, infatti, gli esempi che avvalorano l’una e l’altra tesi e ancora oggi non si è riuscito a definire una rotta comune nella valutazione di interventi come quello per il Palazzo dei Diamanti dello studio Labics